Articolo uscito su Quasicultura.
Sedersi alla scrivania e imporsi di scrivere non sempre si rivela la scelta vincente: se avete già tentato questa strada, più che l’orgoglio del risultato, è molto probabile che abbiate sperimentato quello che nell’arte è chiamato horror vacui, per noi “la paura del foglio bianco”.
L’espressione horror vacui (dal latino «terrore del vuoto») è stata utilizzata per la prima volta da Aristotele nei suoi studi sulla fisica per sostenere l’inesistenza degli spazi vuoti: se ogni luogo esiste in relazione ai corpi che vi sono contenuti, allora il vuoto non esiste. Secondo la teoria aristotelica, inoltre, «Natura abhorret a vacuo», la natura rifugge il vuoto, cercando di riempire qualsiasi spazio a sua disposizione: è così che naturalmente si espandono liquidi e gas fino a coprire ogni angolo.
Come la natura anche l’uomo ha imparato a riempire i luoghi, fisici e domestici con oggetti e suppellettili, relazionali e interiori con le parole e la scrittura, finendo spesso per togliere all’esistenza uno spazio fondamentale: quello del silenzio.
Ma cosa succede quando ci sediamo davanti al pc, o a un foglio, e non riusciamo a scrivere niente?
Spesso quello che accade può avere a che fare con le aspettative che abbiamo nei confronti di noi stessi: scrivere un incipit perfetto, accattivante, capace di raccogliere immediatamente l’attenzione del lettore e convincerlo a proseguire; oppure, al contrario, può succedere di provare una sorta di “ansia da prestazione”: chi mai potrebbe interessarsi a qualcosa scritto da me?
Forse un primo istintivo modo per superare l’impasse potrebbe essere quello di scrivere la prima cosa che ci passa per la testa semplicemente perché sentiamo di volerla comunicare, tentando di ignorare ipotetici giudizi esterni e rassicurati dal fatto che successive riletture ci aiuteranno a limare le imperfezioni.
Al di là di spiegazioni psicologiche che lasciamo agli specialisti, la motivazione nascosta (ma neanche tanto) che nella quasi totalità dei casi attiva il blocco dello scrittore è la mancanza di un progetto, l’inesistenza di una scaletta. Non tutti possiedono il dono dell’ispirazione immediata, e sedersi per iniziare un romanzo perché quel giorno abbiamo deciso così non ci porterà da nessuna parte. Ideare una trama per sommi capi, e poi via via approfondire i punti che più ci interessano, contribuirà a renderci sufficientemente sicuri di ciò che stiamo per fare tanto da riuscire a farlo davvero.
Potrebbe consolarci sapere che una simile impossibilità non si abbatte solo su di noi, ma che, anzi, anche i più grandi sono rimasti “bloccati”. Su tutti, Franz Kafka. Il suo Confessioni e diari è la testimonianza di un’enorme fatica celata dietro pagine memorabili:
20 gennaio 1915: Fine della scrittura. Quando tornerà da me?
29 gennaio 1915: Ancora una volta ho provato a scrivere, praticamente inutile.
7 febbraio 1915: Blocco completo. Tormento senza fine.
11 marzo 1915: Come vola il tempo; altri dieci giorni e non ho scritto niente. Non esce fuori nulla. Scrivo una pagina e sembra che abbia vinto, ma non posso controllarlo, il giorno dopo non ho più questo potere.
Eppure a ogni crisi è seguita una rinascita, a ogni dubbio una successiva illuminazione.
Consapevoli – speriamo – di non essere come Kafka, possiamo trarre beneficio dal suo virtuosissimo esempio per corroborare l’antica lezione secondo cui le battute d’arresto sono più preziose delle lodi. Quindi, niente paura: l’horror vacui è solo il sintomo, la lampadina che si accende per ricordarci che abbiamo solo scordato un passaggio.
Eleonora Marchetti